12.

Il circo

1957

Carlo Ludovico Ragghianti nel catalogo del 1966, cit.: «Da un po’ di tempo non incontravo la pittura di Tirinnanzi. Nel suo svolgersi chiaro e coerente dall’esperienza anteriore, direi che questi [lavori, n.d.r.] rivelano il sentimento di una distanza, e quindi una nostalgia, che depura e libra l’immagine che si fa visione.

Paesaggi alla luce del crepuscolo mattutino, dell’alba con la sua rugiada. Immobili colori trasparenti. Silenzio assorto in una solitudine dove si avverte il suono più lontano. Attesa del risveglio umano e dell’opera del giorno.

Il mondo di Tirinnanzi non muta i suoi volti rivelatori. Ed ecco bambine dai profili già morbidi e ancora un po’ sperticati e ossuti dell’infanzia che si trasforma, in una crisi dolcemente interrogativa. Ed ecco ragazzi dai profili adunchi, con una certezza che non avranno forse più: per molti la pubertà resta l’esperienza ultima e aperta, che si conserva, e la portano nel futuro anche come un pericolo o un rifugio. Nei giovinetti una forza dispiegata, il senso della sicurezza quasi senza limite del corpo, l’agio animale, l’immemore calma di chi non può avere esperito e quindi vede impossibile il limite, la malattia, la morte. Non c’è innocenza, perché non c’è consapevolezza fuori della prepotenza del corpo che rivela tutto quanto può essere possesso.

Tra i poli di questa vitalità ingenua, senza dubbio o dissenso, e di questa decantata contemplazione, i termini dell’arte di Tirinnanzi si presentano ormai con una stabilità di fonte poetica e di stile personale, che gli consentono un ampio registro d’incursioni e di flessibili abbandoni.»

Marco Valsecchi nella monografia del 1962, cit., pp. 9-10, 12: «C’è un modo di essere toscani anche in pittura; ed è chiaro che non si tratta di una questione meramente geografica, ma di un caratteristico comportamento della fantasia. La quale non si disgiunge, nelle sue operazioni, da un naturale controllo dell’intelligenza. Si costituisce in tal modo un equilibrio di valori fra l’immaginazione e il raziocinio, che possiamo dire appunto uno degli aspetti basilari dell’attività di un artista toscano. E si aggiunga pure che tale controllo non è una pedanteria, anche se rischia molte volte di esserlo; piuttosto deriva da un certo spiritaccio scettico e illuminista, risicato, pungente il più delle volte fino all’ironia, tale ad ogni modo da inalberarsi di fronte alle bizzarrie e di rigettarle da sé come aliene da un rapporto armonico tra le cose e le idee, tra la realtà e lo spirito. Del resto deve pur contare qualcosa, sull’intelligenza di un toscano, la tradizione culturale che si profonda per un millennio almeno; e quella natura stessa, città o campagna che sia, composta in un ordine di chiarezza, che nell’architettura è persino un modulo imminente in tutte le ore della giornata.

[…] Tirinnanzi è azzurro. Lo disse già Palazzeschi per la pittura di Rosai; lo si può dire anche per l’allievo. È un colore che predomina, che viene sempre a galla come una trasparenza del sentimento, che intride ogni cosa, ogni altro colore. È anch’esso, a ben vedere, un colore che ama la nitidezza. È tale, anzi, perché è nitido. E ben si adegua allora alla speculare incisività del disegno.»