Nino Tirinnanzi rappresenta un unicum nel pur affollatissimo parterre di artisti italiani che hanno nobilitato la scena artistica europea, a partire dall’inizio del secolo scorso. Egli ha saputo infatti interi- orizzare la possente eredità dei Grandi del passato – da Giotto a Masaccio a Piero della Francesca – per farne solido fondamento di una cifra artistica partecipe e spesso anticipatrice di alcuni fra i più im- portanti movimenti artistici della pittura del Novecento, fondendola con il proprio essere più intimo e profondo. Nella pittura di Tirinnanzi, nulla è estraneo alla sua anima, alla sua coscienza, alla sua vita, così come nulla che lo abbia coinvolto e afflitto in vita, ha mancato di lasciare un segno, talvolta soave e sfumato, talvolta aspro e profondo, nella sua arte. Ricorda Giovanni Faccenda, curatore della mostra e autore di questo catalogo, le parole di Pier Paolo Pasolini rivolte all’amico Nino dipingi come vivi e vivi come dipingi e nulla taci di quanto intimamente ti cattura o ti inquieta. E ciò che catturò ed inquietò Tirinnanzi fu, nella sua vita, davvero molto.
Precocissimo nel padroneggiare l’arte del disegno, fu un predestinato, sin da quando sbalordì il suo primo Maestro, Ottone Rosai, ritraendolo con una profondità psicologica inaudita per un giovane di soli quattordici anni. O da quando, alla stessa età, ritraendo se stesso, volle gridare al mondo la sua sfida, audace e sfrontata, realizzando uno degli Autoritratti più espressivi del secolo, degno richiamo del realismo di Antonello da Messina e al quale, sempre per restare in tema di Autoritratti, non è da meno quello del 1942, dove inchioda sulla tela le prime disilluse tracce dell’angoscia di un dicianno- venne in procinto di affrontare la vita, intrisa di realtà. Ma non si fermò qui, nella tensione di rendere visibile l’essenza universale degli uomini, alla ricerca della verità ultima, sepolta nell’animo. Nei Due uomini sulla panchina, capolavoro del 1949, denuncia drammaticamente il conflitto fra aspirazione a comunicare ed impossibilità di farlo, anticipando di almeno due decenni il disagio di un’umanità illusoriamente libera e felice ma in realtà prigioniera di una sorda incomunicabilità. Chi, se non Piran- dello, aveva, prima di Tirinnanzi, saputo sublimare nell’arte un simile dolore antropologico? E dove, una tale malattia sociale poteva condurre, se non al terrore individuale, cieco e senza speranza, vero dramma dell’esistenza, magistralmente evocato nell’Uomo sdraiato, del 1951, dipinto all’età di 28 anni con tratti vagamente cubisti e precursore di quel realismo esistenziale che entro pochi anni avrebbe fatto irruzione sulla scena artistica milanese?
Come in un magico caleidoscopio, l’intensa drammaticità di questi temi si stempera nel quasi tren- tenne Tirinnanzi, in una tavolozza più tenue, virando verso rappresentazioni meno cupe e quietando il tormento dell’anima entro un rassicurante paesaggio familiare, apparentemente idillico, intriso dei colori e delle luci della propria infanzia e risonante, nei sui esiti migliori, di mozartiana gaiezza. Ampi orizzonti del paesaggio grevigiano, dal sapore delicatamente nostalgico di un tempo oramai perduto, figure riprese in attività ritmate dal tempo della natura, sintesi spirituale di paesaggi atemporali e baluardo contro la caducità della vita umana, eternamente destinata alla sconfitta nella sfida contro il tempo. Sogno anticipatore e promessa del paradiso che attende i giusti, come Santa Teresa di Calcutta definì i paesaggi di Tirinnanzi; ma forse anche rappresentazioni di un paradiso personale nel quale riporre l’anima a riposare e che culminano in alcune fra le più riuscite rappresentazioni metafisiche come Strada e case di San Frediano, del 1959 che sembra avverare quanto già Vasco Pratolini aveva profetizzato all’inquieto Tirinnanzi adolescente.
Non pago di eccellere nella ritrattistica e nel paesaggio, Nino Tirinnanzi ha esercitato un dominio as- soluto nel genere della natura morta, dilettandosi a dipingere negli assolati pomeriggi estivi di Forte dei Marmi, spesso in compagnia di Eugenio Montale, ciò che al mattino acquistava al mercato. Non è blasfemo, davanti alle più riuscite nature morte di Tirinnanzi, andare istintivamente con la mente a Caravaggio o a Gregorio Sciltian, il quale non fece mai mistero di considerare Tirinnanzi l’unico suo vero rivale in questo genere pittorico.
Considerato troppo spesso un epigono di Ottone Rosai da una critica talvolta superficiale e frettolosa, quando non bigotta e malevola, Nino Tirinnanzi ha dimostrato un eclettismo probabilmente unico fra i pittori italiani del Novecento, raggiungendo livelli apicali nella ritrattistica, nel paesaggio e nella natura morta e realizzando una perfetta sintesi fra valori morali ed estetici. Non è un caso che di lui abbiano scritto entusiasticamente due Premi Nobel, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo e che abbia rappresentato un punto di riferimento per alcuni fra i principali protagonisti della vita culturale italiana del dopoguerra, da Giuseppe Ungaretti a Mario Luzi, Sandro Penna, Pier Paolo Pasolini, Fran- co Zeffirelli, Mario Tobino, Anna Magnani, Alberto Moravia, Elsa Morante, Alberto Sordi. Maria Callas da lui – e solo da lui – si fece ritrarre nel periodo più difficile della sua vita e si dice, ancorché non sia mai stata ritrovata alcuna evidenza che lo confermi, che l’unico dipinto che Cesare Pavese possedesse, conservato presso la casa della zia, fosse un’opera di Nino Tirinnanzi. Amato dai colleghi, cosa invero rara nel mondo dell’arte, ricevette l’apprezzamento pubblico di Francis Bacon e ancora risuonano le parole di Giorgio de Chirico che, quasi mai così generoso, nel 1948, definì Tirinnanzi un altro viandan- te nei sentieri della Metafisica, fra Carrà, Rosai e Morandi.
Ci lascia in eredità un corpus di opere di straordinario valore estetico ed artistico, ma soprattutto un rarissimo compendio di umanità. È compito di questa collezione raccogliere, conservare, fare conos- cere e tramandare alle future generazioni l’opera di questo grande Maestro, che volle arrivare in cima, sapendo che non avrebbe trovato gloria ma una croce e che a questa croce sarebbe stato legato, come gli profetizzò il suo padrino Domenico Giuliotti. Non potrei chiudere queste generiche considerazioni, senza rivolgere il dovuto ringraziamento al prof. Giovanni Faccenda, nei confronti del quale sono de- bitore della scoperta di Nino Tirinnanzi e che, con pazienza solo inferiore alla sua competenza, mi ha preso per mano e guidato passo dopo passo, mediocre scolaro quale sono, alla scoperta di colui che – non vi sono dubbi – un giorno non lontano sarà venerato come un Grande della pittura, non solo italiana, del Novecento.