Tante vite
e infine una

Giovanni Faccenda

«[…] Poi, come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto alberi, case, colli per l’inganno consueto. Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.»

Eugenio Montale, Ossi di seppia (1925)

Venti anni parrebbero un tempo adeguatamente lungo per assistere all’attesa chiarificazione esegetica, almeno nelle sue linee principali, dell’opera di un artista. Evidentemente, però, per un autore controverso quanto geniale, quale Nino Tirinnanzi, tale scadenza necessita di ulteriori dilazioni, che ci auguriamo, già in coincidenza di questa mostra antologica, possano favorire le dovute riflessioni e qualche sostanziale – e ormai improcrastinabile – ravvedimento.

Al netto di pregiudizi stantii e stucchevoli fraintendimenti, l’intero percorso creativo di questo eccellente pittore appare contraddistinto da una ricerca incessante, estranea a ogni forma di appagamento, sia nel versante della tecnica che in quello espressivo (mai disgiunto, quest’ultimo, da una vocazione narrativa continuamente costellata da esiti sorprendenti).

L’infanzia e la giovinezza di Tirinnanzi, sapientemente seguite e indirizzate dal suo padrino, Domenico Giuliotti, e dai colti frequentatori della casa grevigiana del noto letterato, furono caratterizzate dalla pregiata vicinanza di questi e di altri fondamentali interlocutori e da un amore per l’arte – e una innata predisposizione al disegno – che lo distinsero subito, agli occhi dei suoi più maturi e celebri sodali, come un autentico enfant-prodige.

Arduo e impervio è certo l’itinerario nell’arte di chi si trovi a iniziarlo con simili premesse e non poche gravose attese. E allora guardandolo adesso, nella sua interezza, con il distacco doveroso che deontologicamente si debba all’attività di qualunque artefice, questo itinerario, così ampio non soltanto dal punto di vista cronologico, compiuto da Tirinnanzi uomo e pittore, a fianco, sempre, di poeti, scrittori, intellettuali e uomini di cinema famosi – della sua generazione e di quella prima della sua –, non possiamo che ritenerlo un cammino degno di nuovi ordini interpretativi, considerazioni più pertinenti e oggettive, e, magari, qualche inedito – e ci auguriamo in tal senso utile – contributo.

Se il «piccolo monstre» – Tirinnanzi fanciullo – era rimasto fortemente impressionato dalle riproduzioni di alcuni dipinti di Carrà fra il 1918 e il 1926 (e, massimamente, da Le figlie di Loth, 1919, e Pino sul mare, 1921), veduti in un catalogo mostratogli da Giuliotti quando aveva nove anni, dobbiamo necessariamente affermare come, per il tramite proprio di quei capolavori di Carrà, egli avesse avuto agio di risalire a Giotto, modello prediletto di questo valoroso Maestro all’alba del Realismo magico.

Dalle pitture di Giotto – appena menzionato – nella Basilica superiore di Assisi, agli affreschi di Masaccio nella Chiesa del Carmine a Firenze, e ancora alle scene della Vera Croce di Piero della Francesca ad Arezzo, il susseguirsi di scoperte, destinate a diventare fonti battesimali precipue, fu senz’altro determinante, soprattutto per il modo in cui Tirinnanzi seppe assimilare e fare propri questi aristocratici magisteri. Ai quali si aggiunsero, presto, altri interessi essenziali: per Botticelli, Raffaello, Andrea del Sarto e Agnolo Bronzino, da scorgere in certi successivi ritratti e, in particolare – pensando a Raffaello –, nell’Autoritratto da adolescente; non trascurando il realismo – diresti talvolta spietato – di Caravaggio (quando il Merisi si spinge, senza limite alcuno, nello scavo analitico dell’animo umano, disvelando ombre remote, persino scabrose, e per questo taciute, nelle espressioni dei volti e nelle posture dei corpi dei suoi personaggi).

Questa parte, che costituisce la preistoria del disegno e della pittura di Tirinnanzi – a tratti segnata da giovanili suggestioni neocubiste –, pure rimanendo sicuramente basilare circa quanto ininterrottamente lo riguardi, soltanto in rari casi – e sempre, peraltro, in termini sommari – è stata fin qui affrontata, nonostante essa risulti propedeutica a qualunque corretta interpretazione critica.

L’incontro con Rosai, decisivo nella storia dell’uomo, un po’ meno in quella dell’artista, merita, a esempio, di essere ricondotto ad altra rilevanza rispetto a quella convenzionalmente attribuita, sulla scia, certo, di intriganti magnetismi, accentuati – da qualcuno forse in malafede – con colpevole arbitrio. Di analoga importanza, infatti, sono i duraturi legami di amicizia e di stima reciproca con Montale, Ungaretti, Gadda, Palazzeschi e Pasolini, aggiungendo immediatamente a questi quelli con Bo, Quasimodo, Penna, Elsa Morante e Zeffirelli.

Nella rivisitazione complessiva dell’opera di Tirinnanzi che intendiamo indicare, vorremmo dunque che contasse, da ora in poi, questa molteplicità di relazioni culturali strettissime e, ovviamente, il molto che esibisca, nella sua coerente evoluzione, la pittura, frutto di quell’indomito desiderio dell’autore di trovare, nei recessi di un’urgenza talora esasperata da vertiginosi proponimenti, una identità specifica ed esclusiva.

Il muro, 1959
Olio su cartone, cm 69,2×103,5

E se il Chianti – ovvero la terra che ebbe a dargli i natali e della quale sarà impareggiabile interprete – fu scrigno di generose meraviglie di natura, da godere nel mutare delle stagioni e delle luci durante i vari momenti del giorno, nelle strade dei quartieri popolari di Firenze, prima, e in quelle di borgata di Roma, poi, Tirinnanzi scoprì un’altra natura, quella umana, insieme alla cruda, talvolta dolente, realtà di se stesso come uomo.

Gli aveva detto Vasco Pratolini, ai tempi della sua ingorda adolescenza: «San Frediano diventerà il tuo parco giochi prediletto. Lo vivrai con la foga di uno che, affamato, veda finalmente un tozzo di pane dopo tre giorni di digiuno. E ci darai, poi, gli odori, le colpe e i segreti delle tue nascoste, personali, irresistibili frequentazioni.»

Parole che echeggiano con quelle di Pasolini durante una delle interminabili ed errabonde camminate notturne nella Roma di Trastevere: «Hai abbandonato piano piano quella decenza borghese che ti avevano insegnato i tuoi. Ora dipingi come vivi e vivi come dipingi, non tacendo nulla di quanto ti catturi intimamente o ti inquieti per antichi ordini etici. Sei vero e grande come pittore anche per questo.» Soprattutto nei quadri con figure degli anni Sessanta, tanto diversi per intonazione e temperatura emotiva rispetto alla mirabile serie dei ritratti del decennio precedente, troviamo un sostrato poetico che condivide con i due suoi più fraterni compagni di avventure dell’epoca, Pasolini, appunto, e Sandro Penna: Penna da individuare in certe delicatezze pittoriche aurorali, esattamente come Pasolini, irrequieto e vespertino, baleni in opere come Ragazzi nel parco, Ragazzi di borgata, e in quell’eccellenza assoluta, abitata da un’aura prodigiosamente metafisica, che è Ragazzi di Tarquinia.

Roma, in quegli anni, gli regala altre amicizie illustri: Anna Magnani, Alberto Moravia, Elsa Morante, Franco Zeffirelli, Alberto Sordi. Di simili rapporti, nei dipinti del periodo, trovi spesso tracce evanescenti, indizi nascosti o argutamente dissimulati: una parola, una smorfia del volto tipica, un sorriso. Resiste, fra un nostalgico passato e l’avvincente presente, l’indole di chi guardi agli altri e a se stesso ora con rigore ora con clemenza.